Dagli anni ‘90 un nuovo inglesismo si è fatto avanti nel mondo delle aziende e oggi ha un ruolo fondamentale nell’ambito degli aspetti chiave per aumentare gli standard qualitativi di un’organizzazione: l’Employer Branding, ovvero l’idea che i potenziali impiegati possono costruirsi di una data azienda in quanto datore di lavoro. L’employer branding si colloca tra le attività di miglioramento della produttività e trasmissione di valore all’azienda in termini di competitività sul mercato. Genera conseguentemente l’attrazione dei talenti, rendendo l’azienda appetibile da molti più candidati di alto livello. L’obiettivo è diffondere all’esterno una buona reputazione che ha a che fare con “il posto di lavoro ideale”.

Attualmente vengono utilizzate specifiche azioni di marketing che comprendono la diffusione della comunicazione dei principi e dei valori aziendali avvalendosi sempre di più dei supporti informatici e del mondo digitale (pensiamo ai siti web aziendali, ai social).  Tuttavia non ci si può affidare alla sola informazione per raggiungere i migliori candidati. L’employer branding, come anticipato, ha l’obiettivo di trasmettere come si vive il contesto aziendale a chi ancora non l’ha sperimentato, ed è esattamente questo ciò che tutti gli interessati a cambiare lavoro cercano di scoprire di un’azienda, per valutare la fattibilità del cambiamento. Le statistiche confermano che una percentuale superiore al 70% di coloro che cercano lavoro visita i profili social dei dipendenti di un’azienda di cui vogliono ottenere informazioni.
In realtà tuttavia, troppo spesso le aziende tendono a ignorare un potentissimo strumento di employer branding, gratuito e forse per questo sottovalutato o ignorato, di cui dispongono quotidianamente: il contatto diretto.
Quante occasioni di contatto diretto ha un’azienda oggi con le persone esterne che cercano lavoro?

Un interessante articolo di Monster mette in luce il paradossale canalizzarsi di energie dei professionisti della ricerca e selezione delle risorse umane verso l’1% della popolazione di rispondenti agli annunci, che poi sarà assunta, mentre il 99% che non otterrà quel posto, non otterrà neanche l’attenzione che merita. Riflettendoci, quel 99% rappresenta in realtà quella preziosa fetta della popolazione di esterni all’azienda con cui si ha un contatto diretto, e per questo una potente fonte di diffusori del nostro employer branding.

Il fenomeno del “passaparola” che oggi assume connotati fortemente digitali grazie all’esistenza dei social, che estendono a macchia d’olio il potere comunicativo di un pensiero o un giudizio espresso dai singoli, è la chiave per comprendere quanto sia importante quel 99% di candidati esclusi e l’idea che essi  si siano fatti di noi, dei nostri valori, dell’aria che si respira all’interno del contesto aziendale e del tipo di persone che ne fanno parte e che presumibilmente ne rappresentano i principi fondanti. Il sentirsi trattati come oggetti o numeri, piuttosto che come persone reali, con esigenze, sentimenti e valori attiva un potente motore di diffusione di informazioni valoriali che va ad influire più o meno pesantemente sulle articolate strategie di employer branding.

Approfondisci il tema: Esito Negativo

Non sarebbe dunque più funzionale cercare di strutturare processi selettivi che tengano in conto della gestione completa e delle modalità più adeguate per gestire i candidati dal primo all’ultimo, in linea con i valori tanto professati su sito e social della nostra azienda?

La talent acquisition e il recruiting di valore in fondo non sono solo la ricerca esplicita e l’inserimento delle migliori risorse per accrescere gli standard qualitativi aziendali, ma nascono anche dall’applicazione e dalla trasmissione dei principi rappresentativi della nostra azienda a tutti e a maggior ragione a chi viene lasciato indietro nelle assunzioni.

Un ricordo positivo in un’esperienza negativa assume un valore potente e competitivo consentendo di distinguersi all’interno del modus operandi della stragrande maggioranza dei contesti aziendali orientati verso quell’1% di ogni nuova selezione da assumere.

Questo vale sia quando la selezione è gestita direttamente dall’azienda, sia quando l’azienda affida il suo brand a società di ricerca e selezione del personale. Diventa dunque strategico applicare questi criteri di valutazione nella scelta di chi rappresenterà e parlerà del brand.

Qualcuno potrebbe dire: troppo lavoro, rallentamento e ingolfamento delle procedure, difficoltà a gestire tutti i candidati esclusi quando ci sono delle priorità impellenti. Ma pensiamoci un attimo: possiamo mostrarci cortesi e disponibili, ringraziare per la candidatura, apprezzare che quella persona abbia scelto proprio noi. Diffondere nella cultura aziendale il rispetto dell’altro anche attraverso un’adeguata indicazione su come gestire i rapporti esterni, accogliendo con un sorriso, effettuando colloqui di selezione empatici e prediligendo un breve contatto telefonico per la comunicazione di un esito negativo potrebbero essere dei semplici accorgimenti che istituzionalizzati genererebbero valore.

D’altronde il nostro lavoro è basato sulla relazione umana, ed è grazie ad essa che esiste.

Quando il 99% di persone escluse ripenseranno al percorso, seppur breve, effettuato insieme, lo ricorderanno con un animo diverso che influenzerà il loro modo di parlare di noi agli altri.
Risuona anche a voi, leggendo queste righe, l’idea di employer branding?

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