Che ora è?
Ebbene eccoci qui, dove siamo? Ho provato a rispondermi di getto: “siamo nella Fase 2 e qualcosa/nella Fase 3 meno qualcosa”, come se stessi guardando l’ora da in un orologio a muro tanto distante da non vedere bene le tacche dei minuti. Stando alle notizie dei media dovremmo essere nella Fase 2, ultimo periodo, che dovrebbe preparare alla Fase tre, in cui cadranno le restrizioni e si potrà ritornare “alla vita di prima”. Non ci sono andato tanto lontano; quindi ci sono ancora le limitazioni (vedi mascherine e distanziamento sociale) imposte dal lockdown, ma ci si comporta così? Per strada ed in alcuni negozi mi sembra che ci si dimentica di vestire le mascherine, non si usano più i guanti come un tempo, il distanziamento sociale è applicato in maniera arbitrale e sembra essere diminuita la necessità di avere sempre appresso la propria scorta personale di disinfettante.
Ma se volessimo leggere ciò che stato fino a ieri con gli occhi della psicologia sociale, cosa vedremmo? Proviamoci.
Il Covid-19 è passato dall’essere qualcosa di ignoto ad una presenza costante nelle nostre vite.
In prima battuta, con la diffusione delle prime notizie con tanto di immagine, il virus fa la sua comparsa in un ambito prettamente scientifico ancorandosi all’idea di una banale influenza. Ci ricordiamo episodi, rilanciati da servizi sensazionalistici, di aperitivi social da parte di esponenti politici; giovani ragazzi che si definivano immuni per via della loro età e pronti a continuare ad uscire e riunirsi con gli amici. A questo primo momento, con l’aumento dei focolai ed i primi bollettini della protezione civile, si è iniziato a separare l’ambito scientifico da quello sociale, che ha iniziato a diventare più preminente. Il Covid ha iniziato a diventare un oggetto più maneggiabile da tutti passando ad una verbalizzazione che l’ha reso un “nemico invisibile” da cui nessuno è al sicuro; da qui il concetto ha perso i suoi contorni definiti diventando sempre meno incasellabile e aumentando il senso di paura delle persone: di questa fase la reazione di assalto dei supermercati che cercava di lenire i sentimenti primitivi di paura e impotenza: per cui uscire di casa solo per necessità si è trasformato in corsa ai beni di prima necessità (o meno) per avere maggiori chance di sopravvivenza nel caso in cui non saremmo potuti mai più uscire di casa.
Il nemico invisibile, con il passare dei giorni, ha portato le persone a trovarsi e a vivere situazioni simili; molti, attraverso i media ed i social, hanno iniziato a comprendere che i propri sentimenti e le sfide che affrontavano erano condivisi anche da altri; da qui si è generato una certa sensazione di condividere un destino comune e la volontà di combattere insieme uniti, di sentirsi parte del gioco e di voler dimostrare di non tirarsi indietro nel momento del bisogno…ma come fare? Nascono da questi sentimenti i flash mob sul balcone, gli applausi per i medici, gli inni e l’ “andrà tutto bene”.
Ciò conferma la sensazione di appartenere ad un unico gruppo sociale che condivide la stessa sorte comune.
Ci sentivamo come se la nostra nazionale stesse giocando i Mondiali, c’era un sentimento patriottico dilagante. Tuttavia sarebbe bastato girare l’angolo per incontrare la nostra nemesi: l’inerzia sociale. È bastato poco tempo perché le persone che sembravano appartenere ad un unico gruppo, al variare delle condizioni, hanno sentito di doversi impegnare di meno nel rispetto dei propri compiti in quanto il loro contributo è stato via via percepito sempre più inglobato in quello di una comunità/gruppo più o meno grande. Si è assistito così ad una diminuzione dell’aderenza ai comportamenti indicati dal governo, una diminuzione della responsabilità individuale nei confronti del proprio gruppo e collettività con i conseguenti scorciatoie di pensiero (euristiche) adottate: “Non uso mascherine se devo entrare un attimo nel bar per comprare le sigarette”, “Fuori non vale la distanza sociale o l’uso delle mascherine”, “Se esco da solo a fare una passeggiata sono totalmente al sicuro”, eccetera.
Non siamo creati per stare in attesa di una ricompensa/effetto a lungo termine.
Ma quindi cos’è è successo in noi?
Banalizzando si potrebbe dire che non è andato tutto bene, o per meglio specificare i primi risultati del Covid e successivi sono stati caratterizzati da una presa di coscienza di alcuni fatti: ci siamo trovati sempre più da soli in casa, con i nostri pensieri ed ansie per il futuro; il lavoro in smart working non era minimamente strutturato in tal senso, si può parlare di lavoro in quarantena (“quarantena working”) con tutte le difficoltà legate allo svolgimento delle attività, la scarsa organizzazione di strumenti e postazioni per effettuare in casa il proprio lavoro, le difficoltà di riorganizzare un buon bilanciamento tra vita privata e lavorativa; i pochi supporti statali alle famiglie per le attività di cura dei propri figli; la scarsa linearità delle attività per richiedere il sostegno economico per i lavoratori P.IVA; la sperimentazione di periodi di cassa integrazione o non conferma del proprio posto di lavoro al riprendere delle attività delle aziende e l’elenco potrebbe essere lungo.
Da molti osservatori questa esperienza ha accelerato l’insorgenza di disturbi asiosi-depressivi e sindromi post traumatiche, più o meno importanti, che sono stati tamponati dalle linee di supporto psicologico attivate da diverse Regioni e che ha visto concretizzarsi in azioni più durature come la definizione dello psicologo di base, in alcune Regioni italiane. Sembra che sia opinione diffusa, tra gli addetti ai lavori, che nei prossimi mesi si potrà assistere ad una maggiore richiesta di attività di supporto psicologico.
Cosa avverrà nei prossimi mesi è difficile definirlo; questo è stato un momento di trauma e shock collettivo da cui si ramificano diversi possibili futuri. Siamo stati italiani, panificatori, cross fitter, “quarantena worker”; abbiamo raccolto e compilato autorizzazioni per uscire di casa, abbiamo cantato sul balcone e siamo infine usciti di casa a ballare per strada insieme. Aspetti di quello che siamo come società sono stati visibili in questi mesi, nel bene e nel male. Quanto saremo in grado di gestire/resistere al cambiamento e alle difficoltà si vedrà domani.
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