Ieri sera ho visto MasterChef. La trama alle volte è diabolicamente costruita. I poveri partecipanti dovevano scegliere tra una mistery box in vetro, chiamata SAFETY, dove erano visibili gli ingredienti con cui avrebbero dovuto cucinare ed una in legno, con sopra indicato RISK.
Come ovvio, alcuni hanno scelto l’una e altri l’altra. Solo dopo la scelta, i perfidi giudici hanno espresso il loro unanime parere ovvero che, al di là di tutto, avrebbero preferito chi avesse scelto la mistery box RISK, perché in cucina occorre osare, volare, rischiare.

Mi ha colpito a quel punto una timida, ma determinata candidata che, per difendere la sua scelta “sicura” e il suo piatto, ha espresso un pensiero che ritengo interessante: anche a scegliere di star cauti, di fare con quel che si ha, di apparire mediocri e non spavaldi, si corre e si accetta un rischio.

E la sfida la si vince sul risultato e non sull’approccio più o meno spavaldo.

Ad onor di cronaca, il suo piatto è stato tra i tre migliori e l’unico della categoria dei SAFETY.

 

Perché scrivo e rifletto su questo? Perché

trovo molte similitudini con il momento delicatissimo della fase finale di un percorso di selezione, quando il candidato e l’azienda devono stringere, passare dal pensiero all’azione e decidere se le strade devono diventare comuni.

In quel momento lì, anche se come consulente ho preparato l’avvicinarsi del momento, improvvisamente le “antenne si drizzano”. Tutte le parti in gioco diventano sensibili ai segnali deboli e cercano di immaginare come evolve la trattativa o come sarà il loro futuro professionale una volta apposta la firma.

C’è un rischio, questo è sicuro: attutito, si spera, dall’intervento precedente del consulente che ha avvicinato le parti, ma comunque c’è o viene percepito. Un’area di incertezza per cui i comportamenti dell’altro vengono tutti letti in un’ottica di previsione del comportamento futuro o di quanto la controparte è effettivamente sicura di voler accettare la sfida.
A volte, però, si corre il rischio di confondere la sicurezza con la spavalderia, di non mettersi nei panni  dell’altro, per cercare di capire come, sia l’azienda che il potenziale candidato, vivono il momento in maniera complessiva.

In un caso, quello dell’azienda, la scelta si inserisce nel più ampio e complesso sistema di relazioni interno, l’importanza della scelta e l’assunzione di responsabilità che il manager si prende nel mettere il proprio “bollino” sul candidato, possono portare a posticipare, avere necessità di maggiori garanzie, vedere altri candidati. Esistono poi distorsioni, figlie di una ambivalenza che spesso va oltre il singolo candidato, che possono portare a richiedere dimostrazioni quasi di “affetto” impossibili da parte del candidato che non conosce la realtà. A volte ciò sfocia anche in proposte contrattali ed economiche definite sfidanti ma che semplicemente non sono appetibili o di mercato per il professionista il quale, poi, legge nella proposta una mancanza di possibilità o di interesse nell’investimento o una generale non chiarezza del progetto.

Ecco perché non dovrebbe sorprenderci quando ci viene chiesto di incontrare a colloquio candidati con i quali l’azienda cliente pensa di procedere e che sono figli di referenze anche personali e di amicizie e ci accorgiamo che i più macroscopici elementi di valutazione di competenza specifica di ruolo, della reale motivazione e della comunanza di aspettative, non sono stati sondati, mentre con candidati frutto di selezione, “una parola sposta l’asse”.

 

 

Dall’altra il candidato nel momento della scelta si porta dietro i vissuti di passate esperienze di cambiamento, coinvolge la famiglia in situazioni di rischio, per cui mette il proprio reddito, la propria professionalità, in parte le proprie sicurezze nelle mani di un’organizzazione quasi sconosciuta. Anche qui, esistono poi distorsioni che portano il candidato a pretendere che l’azienda sia in grado di garantirgli una continuità totale col passato, così da “cambiare senza contraccolpi o cambiare senza cambiare” o una rottura completa col passato, nel caso questo fosse non apprezzato, perché elementi di similitudine vengono erroneamente letti come “cadere dalla padella alla brace”.

Vorrei riflettere, con chi legge, sul fatto che il comportamento di chi sa (o può perché non perde nulla) affrontare questa fase con assoluta tranquillità, non mostrando mai incertezza, non chiedendo maggiori garanzie e buttando il cuore oltre l’ostacolo, non sia necessariamente indicativo di una migliore performance lavorativa successiva o di un progetto aziendale chiarissimo e lineare.

Ma quando le reazioni più attente sono “fisiologiche” e quando invece possono essere lo specchio di reali incertezze, dubbi che vanno oltre alla delicata fase di conoscenza reciproca?
Qui il consulente gioca un ruolo importante e difficile, può aiutare ad analizzare oggettivamente gli eventi e i comportamenti e, attraverso la costruzione di relazioni professionali e positive, può raccogliere informazioni utili alla comprensione delle dinamiche in atto, ma nessun consulente può annullare il rischio.
Ogni decisione importante comporta un rischio e l’assunzione di una responsabilità.  Mi dispiace dirlo, ma è così! Buona scelta a tutti

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