Da piccoli eravamo tutti incuriositi dal mistero: il baule del tesoro, le mappe dei pirati, il passaggio segreto, il libro delle formule, le pozioni magiche… insomma eravamo spaventati, ma anche tanto affascinati da tutto ciò che andava scoperto; da ciò che era diverso da quello che appariva.
Quello che in fondo ci affascinava era la possibilità di scoprire mondi segreti grazie alla nostra attenzione, curiosità, abilità, coraggio e determinazione.
Di recente, a un importante HR forum, ho capito quanto sia ambita la possibilità di abdicare a questa universale propensione a scoprire ciò che si nasconde agli occhi.
Pare siano attualmente piuttosto ricercati strumenti in grado di rendere tutto più semplice e di eliminare la fatica della scoperta
sostituendo curiosità, ricerca e coraggio con sofisticati sistemi in grado di identificare chi siamo e prevedere come sarà il nostro comportamento lavorativo dalle nostre risposte o dalle nostre espressioni facciali di fronte a un pc che ci domanda, in modo asettico e sempre uguale, cosa vogliamo ottenere nella vita.
Questa volta voglio apparire retrò. Voglio sentirmi una vecchia 500 in mezzo a nuovi e sofisticati sistemi di mobilità che sfrecciano alla velocità della luce e non ti lasciano gustare l’odore del fieno maturo.
Mi domando se sia possibile veramente ridurre l’interpretazione dell’umana complessità.
Nessun automatismo, seppur sofisticato e corretto sarà mai in grado di interpretare il perché di quel comportamento che è stato rilevato, dirci in quali occasioni si ripresenterà, se è frutto della specifica interazione col pc oppure se rileva un comportamento tipico e una tratto della persona. E quel perché è come il baule del tesoro: non nel momento in cui l’abbiamo trovato ma nel momento stesso in cui abbiamo iniziato a desiderarlo, a cercarlo, a giocare con gli indizi e con le nostre segrete paure di non arrivare a nulla.
Ho una brutta notizia: la semplificazione, la sterilizzazione dei rapporti, la distanza che permette di affondare senza nemmeno aver guardato negli occhi, non funzionano.
Ovviamente non mi riferisco all’utilizzo di queste tecnologie per rilevare informazioni su specifiche competenze tecniche, ma abdicare alla presa di responsabilità, per affidare a un automatismo una delicata decisione sull’individuo e sulle sue caratteristiche.
Potrà funzionare dal punto di vista economico, potrà riscuotere successo commerciale oppure far risparmiare, ma non farà altro che accrescere generazioni di persone che non hanno più curiosità, competenze o tempo di avvicinare le anime, di discutere prima di tutto con se stessi e poi con l’altro, di interpretare gli indizi e ascoltare la pancia e il cuore.
Il nostro mestiere di selezionatori, quando siamo chiamati a valutare le caratteristiche di una persona, le sue attitudini, motivazione, potenziale, stile… è fatto di scelte che si basano prima di tutto su un’attenta raccolta di indizi, sulla ricerca continua dell’informazione che può confutare (non confermare, ma confutare) la prima impressione. E poi sull’interpretazione dei dati raccolti.
Ecco, questi strumenti digitali sono validissimi contributi alla raccolta di informazioni. Sono supporti che assieme ad altri, come l’analisi del cv e dei profili social, la somministrazione di valide prove e test e, soprattutto, il colloquio, ci forniscono informazioni utili nella presa di decisione, non possono essere definiti come esaustivi di per sè.
Carmen Consoli cantava, e rifuggiva, da un amore di plastica; io rifletto su come questi supporti digitali se utilizzati come unici strumenti di valutazione applicati al campo della selezione del personale, siano dei semplificatori della complessità. Il rischio è quello di non porre attenzione all’animo umano, banalizzare la complessità della sua interpretazione, non voler vedere l’inafferrabilità che è anche infinita meraviglia.
La faccio breve: videointerviste senza intervistatore, sistemi per l’interpretazione automatica del non verbale, test a distanza non corroborati dalla conoscenza del singolo…
La domanda è: accetteremmo di essere scartati, in base alle nostre caratteristiche, da un algoritmo?
Quale sarebbe la nostra reazione dinnanzi al fatto che quell’HR non ha dedicato nemmeno un minuto del suo tempo e nemmeno un briciolo della sua umanità per guardarci negli occhi o ascoltarci e cercare di capire la nostra storia e chi siamo oggi?
Mio padre ha tanti difetti, ma mi ha insegnato una cosa a cui spesso faccio riferimento: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te.
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