Il virus e la sua gestione ferrea e assolutista (condivisibile e inevitabile o meno che sia) hanno creato una società di individui soli o chiusi in stretti gruppi di persone legate più da frequenti scambi di saliva che da affetti. Il paradosso devastante è che nel momento in cui avremmo più bisogno di stare assieme, di esorcizzare le paure, di dimenticarci del quotidiano grazie alle amicizie, allo svago, alla socialità, ci ritroviamo sempre più isolati e costretti a sentirci soli. Bombardati da tutte le parti da numeri che non sappiamo interpretare correttamente, notizie allarmanti poi mitigate poi ancora ingigantite, viviamo come in un vortice che tutto risucchia e dal quale ci difendiamo aggrappandoci tenacemente per non scivolare nell’oblio.
Pare che qualcuno abbia tolto all’improvviso il tappo dalla vasca da bagno.
Alcuni hanno forza e posseggono strumenti per rimanere appesi e aspettare che il vortice finisca senza essere completamente risucchiati. Altri invece perdono appigli e finiscono per cadere in quel buco nero dove tutto si mescola, dove la razionalità non è più uno strumento di lucida interpretazione della realtà, dove la paura, che sempre aleggia nell’ombra, la fa da padrone.
È un vortice gigantesco. Un cono d’ombra che pare infinito che ci restituisce il senso della nostra precarietà ma anche il non senso del vivere sospesi nell’attesa che tutto passi. Chi rimane appeso aspettando che il vortice si esaurisca infatti non se la passa certo meglio di chi ha perso appigli. Vive ancorato a certezze incrollabili difendendosi da tutto ciò che gli passa intorno. Schiva le persone che si sono già lasciate andare per evitare di perdere l’ultimo appiglio e cadere anch’esso nel vortice della paura e della rassegnazione. E così, la nostra società si compone di nuove categorie di individui, di quelli arrabbiati e di quelli spaventati, di quelli che non si fidano e di quelli che non sopportano quelli che non si fidano. Ansia, stress, depressione, paura, rabbia, disinvestimento sono alcuni dei più frequenti sintomi di una condizione di totale spaesamento, di perdita di punti di riferimento e di caduta delle certezze. Ciò che è positivo, piacevole, bello, sano, divertente, è considerato pericoloso e questo stravolgimento delle nostre precedenti certezze è devastante. Tutto ci porta a restare immobili, rintanarci come animali spaventati dalla presenza del predatore finché il rumore la fuori non passa, finché non ci sarà silenzio assoluto. Ma questo atteggiamento non è senza conseguenze. Fomenta la passività, porta l’indolenza, la staticità e poi, pian piano alla rassegnazione.
Abbiamo poche e limitate forze per andare controcorrente e continuare a sorridere ed essere felici nonostante tutto. Se immaginiamo che la corsa controcorrente sarà breve, possiamo usarle tutte queste forze e continuare a correre incontro alla serenità. Ma a lungo andare, se siamo nel bel mezzo di una infinita maratona, l’esaurimento delle scorte a disposizione arriva e fa male.
Una volta c’erano i bar, i ristoranti, le palestre, le scuole piene di chiasso e sudore, le feste e le sagre, gli spettacoli, le balere, i circoli, le feste con gli amici. Questa ragnatela delicata che da sempre ci siamo costruiti per sentirci società, per sentirci parte. Ora al centro della ragnatela c’è, per chi ce l’ha, il lavoro e ci sono i colleghi. Il luogo di lavoro è un luogo di ritrovo, fisico o virtuale in cui si respira ancora aria di comunità, in cui si può trovare svago all’assurdità quotidiana e dove si ritrova il senso.
L’impresa, suo malgrado, assume un valore sociale inestimabile.
Si ritrova sulle spalle le persone che la compongono e i loro affetti. Persone che al di fuori di essa si ritrovano ragnatele piene di buchi. Subisce gli effetti della devastazione che c’è e che verrà in termini non solo di mancata presenza ma anche di passione, di spavalderia e di motivazione, di entusiasmo, i veri carburanti del fare.
Il vortice che tutto risucchia non terminerà a breve. Ma c’è una terza alternativa all’aggrapparsi e resistere o al finire per vorticare fino all’oblio. C’è una strada personale e collettiva che può renderci capaci di osservare il turbinare delle cose senza entrarci dentro. Questa strada passa anche dal ristabilire il senso, gestire le emozioni e mantenere fiducia in sé e negli altri.
L’impresa quindi, volente o nolente, è chiamata a diventare nuova comunità, a tessere la sua personale ragnatela che permette il sostegno e il supporto alle persone, che le aiuta a trovare equilibrio. Oggi come non mai, adottare piccole misure per migliorare il benessere sul luogo di lavoro significa fare la differenza, fuori e dentro l’azienda. Ricordarsi di quello che le persone vivono tutti i giorni e agire per fornire supporto nella consapevolezza di quanto importante sia resistere tutti assieme è qualcosa che va oltre l’etica o i valori. È naturalità.
Non è facile. Gli imprenditori non nascono e non si formano per fare questo, ma io non vedo alternative.
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