Ho notato che oggi c’è la tendenza ad inventare un termine in inglese per qualsiasi nuovo trend del mondo del lavoro: Quiet quitting, Great Resignation, Job Hopping etc.
Mi chiedo se prima o poi si inventeranno un termine anche per descrivere quando una persona torna a lavorare in un posto in cui ha lavorato in precedenza, magari qualcosa come Back Work, Ripensamenting?
In realtà forse non è un trend così in voga da meritarsi un nome, ma nel mio piccolo penso che questo tema meriti comunque una riflessione, in cui spero che anche altri possano riconoscersi.
Alla ricerca della “crescita professionale”
Parto col dire che sono una di quelle persone fortunate che ha potuto studiare ciò che desiderava e che senza troppi ripensamenti ha scelto una strada e l’ha portata avanti.
Dopo la laurea ed il tirocinio inizio la mia prima esperienza di lavoro in una piccola ma rinomata società di consulenza in una città della Romagna, appunto SCR Selezione e Consulenza per le Risorse Umane.
Se devo dire la verità non credevo che questo sarebbe stato il posto in cui sarei rimasta tutta la vita.
Sentivo che era mio dovere trovare qualcosa di più, fare qualcosa di più: un’azienda più grande, dei processi più strutturati e soprattutto la tanto agognata e fantomatica prospettiva di crescita.
Mi sembrava che fosse l’unico modo per sentirmi realizzata, la sola via percorribile per dare continuità a quello che avevo scelto come percorso e soprattutto per essere al passo con i miei coetanei. Ero convinta di volerlo a tal punto da voler cercare a tutti i costi di saltare fuori da quella che mi sembrava una boccia per i pesci troppo piccola.
Continuando a cercare, dopo qualche anno l’occasione è capitata ed effettivamente sono passata da quello che consideravo un piccolo stagno ad un vasto mare. La hall dell’azienda era grande, le persone erano tante, il nome era scritto persino sulla fantastica borraccia aziendale e tutto inizialmente appariva nuovo e scintillante.
Le cose, però nel giro di alcuni mesi hanno cominciato a peggiorare e, senza entrare troppo nel merito se fosse “colpa mia o colpa sua”, ho cominciato ad avere crisi di ansia e sia la mia serenità sia la mia salute mentale cominciavano a risentirne.
Oltre a stare male per il lavoro avevo l’impressione di non avere via di fuga.
Non riuscivo a concepire che le cose non stessero andando come avevo previsto. Che non mi sentissi come credevo che mi sarei sentita.
In fondo quella vita l’avevo scelta io, era quello che volevo, la naturale conseguenza del mio percorso di studi, quello che avrebbe dovuto rendermi felice, darmi uno scopo, farmi sentire gratificata e realizzata. Del resto i miei familiari sembravano contenti, mi sentivo accettata dai miei ex compagni di università, dagli ex colleghi, dagli amici. Mi sembrava addirittura di avere un peso diverso nella società ora che potevo dire di lavorare in una grande realtà.
Con quale coraggio potevo andare a dire loro che le cose non erano tutte e rose e fiori e che avrei voluto mollare?
In una società in cui sembra che nessuno regali niente, che bisognerebbe baciarsi i gomiti per la fortuna di avere un lavoro stabile, anche soltanto l’idea di lasciare mi faceva venire i brividi.
Eppure ero infelice. Ed era un circolo vizioso da cui facevo fatica ad uscire.
L’importanza di ascoltarsi, anche contro le aspettative della società
Fortunatamente grazie anche all’aiuto di una psicologa sono riuscita a capire che non è il lavoro a definirci come persona, nonostante la società di oggi spesso ci porti a crederlo.
Che il fatto di mollare qualcosa, soprattutto se è qualcosa che ci fa stare male, non significa che non siamo all’altezza o che siamo deboli, ma al contrario. Che il fatto di voler avere una vita fuori dal lavoro è qualcosa di giusto e addirittura sano al giorno d’oggi, anche se spesso il messaggio che riceviamo quando ci guardiamo intorno non è quello.
E a quel punto ho trovato in me la forza di andare contro a tante cose: di andare contro alla tendenza della società che ci vorrebbe tutti ancorati al sogno di un’importante carriera basata su stress, mancanza di sonno e straordinari. Contro a ciò che gli altri potevano pensare nei miei confronti che volevo lasciare un contratto a tempo indeterminato e soprattutto contro a quella parte di me che mi continuava a dire che se mollavo voleva dire che “non ero abbastanza”.
Oggi dopo aver preso quella decisione ed essere tornata a lavorare in un posto dove sto bene e con condizioni di lavoro che mi permettono di avere una vita felice, penso a volte a tutte quelle persone che magari come me si sono sentite sbagliate a causa delle aspettative della società perché hanno deciso di “mollare”.
Viviamo in una società che spesso inneggia al sacrificio, alla tenacia, e al doversi mettere in secondo piano per ambire obbligatoriamente a qualcosa di più: “tu sei giovane devi fare carriera”, “se non spingi adesso che non hai figli quando lo fai?”, “alla tua età bisogna darsi da fare, “non va bene accontentarsi quando si hanno le energie”, “devi essere ambizioso”, “solo con il sacrificio si ottengono le cose”.
Credo che molti di noi si possano essere sentiti dire frasi del genere e non solo, e sono proprio frasi di questo tipo che inculcano nella testa delle persone che per essere giusti bisogna sempre desiderare qualcosa di più, fare carriera, crescere, guadagnare e che se tu non desideri queste cose sei uno scansafatiche o sei sbagliato.
È in questi casi che diventa fondamentale la capacità di ascoltarsi e di riflettere su quello che si desidera veramente, anziché seguire ciò che gli altri ci dicono che dovremmo desiderare.
Imparando ad ascoltarci e mettendo il nostro “stare bene” in primo piano saremo in grado di ignorare tutte le altre voci, non importa quanto grideranno forte, noi saremo già un passo avanti sulla strada che abbiamo deciso di percorrere.
1 Commento
Grazie, mi sembra di leggere la mia situazione attuale.
Questo mi ha fatto riflettere molto e finalmente ho capito la necessità di “lavorare” di più su me stesso e una sana via d’uscita sono sicuro arriverà.
Grazie