L’hanno chiamato “Big Quit” o “Great Resignation“, le grandi dimissioni. È il fenomeno, partito dagli USA circa a metà del 2021, per il quale le persone , di fronte alla richiesta delle aziende di tornare a lavorare in ufficio, preferiscono rassegnare le proprie dimissioni.
Le prime realtà che hanno fatto i conti con questo vero e proprio esodo sono state le Big Corporate del Tech. Tim Cook, CEO di Apple ha ricevuto una lettera dai dipendenti per chiedere la modifica del modello che prevede lavoro in ufficio tre giorni a settimana e un approccio più flessibile così da mantenere l’equilibrio famiglia-benessere-lavoro instaurato durante i periodi di lockdown. Il fenomeno si è esteso a macchia d’olio, modificando nel giro di pochi mesi i contorni del mercato del lavoro americano, con circa 20.2 milioni di lavoratori che hanno lasciato il proprio impiego nel periodo compreso tra maggio e settembre, raggiungendo il picco del 3% di dimissioni a settembre 2021.
Ciò che caratterizza questo nuovo fenomeno e che lo differenzia dai precedenti cicli di regressione e ripresa del mercato del lavoro, è la tendenza di molte persone a dare le dimissioni senza una vera e propria alternativa, facendo un salto nel buio e mettendo a rischio la propria stabilità lavorativa pur di migliorare le proprie condizioni di vita.
Questa tendenza è confermata da uno studio di McKinsey, che ha coinvolto quasi 6mila persone in età lavorativa residenti in Australia, Canada, Singapore, Regno Unito e Stati Uniti: se il 40% dei lavoratori è intenzionato a cambiare lavoro nei prossimi 4-6 mesi, il 36% di chi si è già licenziato lo ha fatto senza avere ancora in mano un nuovo lavoro. Sintomo, questo, non solo di una crisi del mondo del lavoro, ma di un vero e proprio cambio di paradigma e di priorità nella vita di molti lavoratori.
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Ma sbaglieremmo se pensassimo che questo fenomeno è limitato alle realtà oltreoceano. Infatti “le grandi dimissioni” sono arrivate anche in Europa e in Italia, investendo il mercato europeo come una valanga e spazzando via i tradizionali modelli organizzativi.
Vediamo cosa sta succedendo nel nostro Paese.
Le Grandi Dimissioni in Italia
Con lo sblocco dei licenziamenti, in tanti prevedevano (temevano?) un’apocalisse nel mondo del lavoro, con un forte aumento dei licenziamenti da parte delle aziende. I licenziamenti ci sono stati, ma la richiesta è arrivata da lavoratori, spesso a tempo indeterminato, che decidono di mettersi in cerca di condizioni migliori. Dai dati pubblicati dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali riguardo al secondo trimestre del 2021, c’è stata una crescita tendenziale del 43,7% nelle cessazioni dei rapporti di lavoro, con un particolare incremento tra aprile e giugno 2021 che ha fatto registrare 2 milioni 587mila chiusure dei rapporti lavorativi, con un aumento dell’85% rispetto al 2020. Un numero che arriva a 770mila alla fine di ottobre, secondo le statistiche della Banca d’Italia, 40mila in più del periodo pre-pandemia.
Di queste, 484mila cessazioni sono state causate da dimissioni volontarie dei lavoratori, con un picco di abbandono volontario sul totale di occupati che anche in Italia ha superato il 2%, come non accadeva da anni.
I numeri ci mostrano quindi un quadro ben definito, che sta correndo sulla scia della situazione in USA. Ma per capire le reali cause di questo fenomeno, e permettere alle aziende di “correre ai ripari” per evitare di lasciare andare i loro talenti, occorre scendere più nei dettagli e scoprire chi sono le persone che decidono di licenziarsi dal posto di lavoro e quali sono le motivazioni che li spingono a questo salto.
L’identikit dei “quitters”
Sebbene tutto il mondo del lavoro sia in grande movimento, sono principalmente due categorie di lavoratori a dimostrare più propensione al cambiamento professionale in questo periodo. Monica Tapparello, coach career della società di outplacement Intoo, indica come “quitters“, ovvero con una maggiore propensione a cessare il proprio rapporto di lavoro, uomini di età compresa tra i 40 e i 50 anni, che spesso lavorano in settori che hanno risentito della crisi causata nella pandemia come la filiera automotive ma che si trovano di fronte ad un mercato del lavoro ancora molto rigido.
A farla da padrone come “quitters” sono però i giovani: secondo un’indagine dell’AIDP, l’Associazione Italiana per la Direzione del Personale condotta su 500 imprese italiane, sono aumentate le dimissioni volontarie (70%) di giovani professionisti di età compresa tra i 25 e i 36 anni, residenti in Nord Italia. Il mondo del lavoro sta quindi avendo le conseguenze delle politiche di smart working messe in atto nel 2020, che hanno mostrato che come una maggiore flessibilità è possibile in molti settori e che non influisce negativamente sulla qualità del lavoro – e dell’ingresso a pieno titolo dei Millennials e della Generazione Z nel mondo del lavoro, che hanno valori e priorità molto differenti dai loro predecessori e che sono tra le categorie di lavoratori che maggiormente sono disponibili ad un cambiamento professionale.
Approfondisci questo tema leggendo: “Attaccamento al lavoro e valori: generazioni a confronto”
Lavoratori alla ricerca di un “senso di vita”
Parliamo di valori e priorità perchè proprio questi sono gli elementi che stanno spingendo molte persone a lasciare il lavoro e che li stanno guidando nella ricerca di opportunità alternative.
È l’effetto della Yolo Economy (You Only Live Once – si vive una volta sola), per cui la retribuzione e le condizioni contrattuali non sono più oggi i fattori principali che portano a scegliere un lavoro ma molti lavoratori si muovono, come si legge nell’indagine dell’ADIP, alla ricerca di un “senso di vita”.
Flessibilità, smart working, sostenibilità, sono queste le parole d’ordine che portano le persone a scegliere un altro lavoro nel mondo di oggi. Da uno studio condotto dall’IBM Institute for Business Value (IBV) su 14mila lavoratori in tutto il mondo, è emerso come le motivazioni principali che spingono le persone a cambiare lavoro siano la necessità di avere maggiore flessibilità (32%) e la voglia di avere un incarico più mirato e soddisfacente (27%). Alla domanda su cosa i datori di lavoro dovrebbero offrire per trattenere i propri collaboratori all’interno delle organizzazioni, i lavoratori hanno indicato come priorità un miglior equilibrio tra vita professionale e privata (51%) e opportunità di avanzamento e di carriera (43%).
Ad innescare questa tendenza ha contribuito in maniera rilevante anche l’ampia diffusione dello smart working, modalità di lavoro che prima della pandemia era ancora poco diffusa tra le aziende italiane. Nel 2020 però i lavoratori hanno compreso come lo smart working possa azzerare i tempi degli spostamenti casa-lavoro, migliorare le relazioni familiari e regalare loro più tempo per la cura dei figli o per coltivare passioni e interessi personali; insomma, ha mostrato alle persone che può esistere una nuova modalità di lavoro, lontana dai ritmi frenetici e alienanti di un tempo, a cui i lavoratori oggi non vogliono più rinunciare.
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