È mattina, fa freddo e devo ancora scaldare i pensieri con un caffè bollente.
Il tempo è poco. Bevo, mi ustiono, mi vesto e salgo in macchina.

Nei trenta minuti che mi separano dal lavoro penso che anche oggi dovrò inventarmi qualcosa di nuovo per trovare l’introvabile: il candidato ideale.

Ogni azienda è alla ricerca del profilo perfetto ed io non sono in gradi di trovarlo semplicemente perché non esiste. La mia missione è un’altra, devo scovare chi ha le potenzialità per diventare perfetto. E non si parla di una perfezione generica che va bene sempre, ovunque, con tutti e per tutti. No, qui si parla di sfumature, talvolta impercettibili perfino per chi le possiede.

Allora mi metto in moto. Sono passate da poco le nove e in ufficio l’unico rumore percepibile è dato dal battito dei polpastrelli sui tasti. Tutto il resto diventa foschia che lascia spazio alla nitidezza dello schermo. E via con pagine di nomi, di carriere, di Master dai titoli impronunciabili e si inizia con la ricerca.

Questo potrebbe ma… Questo profilo è meglio. Ecco, questo sarebbe perfetto ma no, gli manca quella piccola cosa, ma sai che ti dico? Io lo chiamo lo stesso.

E la mattina passa con i rumori forti, fortissimi, dei miei discorsi in testa che rispettano il religioso silenzio dell’ufficio.

Pausa caffè. I pensieri sono già caldi, ma è sempre meglio non correre il rischio di rallentare le sinapsi. Torno alla mia postazione, accendo il telefono e… niente. Nessuno mi chiama, nessuno mi cerca, vuol dire che non ho lasciato niente in sospeso. Molto bene.

Faccio una bella lista dei profili individuati, preparo un discorso, me lo scrivo, lo rileggo, lo imparo e poi me lo dimentico. Non posso fare una telefonata sempre uguale, o perdo tutte quelle sfumature preziose.
Inizio le chiamate e tra un “non mi interessa, grazie”, “sto già lavorando”, “non ho capito, chi è lei?”, “Ho già Fastweb, la ringrazio lo stesso”, trovo la persona interessata ad approfondire il discorso.

È il decimo che chiamo, ma l’unico con cui non posso sbagliare nulla, nemmeno una sillaba. Indosso il costume di Umberto Eco e gli racconto perché proprio lui, senza avere la certezza che sia davvero il Sacro Graal per il mio cliente.
E lui sapete che mi dice? Che accetta la sfida, che vuole andare avanti. Sorrido un po’, a mezza bocca, perché consapevole di non potermi fermare qui. Devo continuare a cercare, cercare e cercare… Non mi basta la goccia d’acqua nel deserto, io voglio tutto il mare.

Continuo a lavorare mentre la luce da fuori inizia a spegnersi. Mi accorgo di avere ancora tante cose da fare e non avere più il tempo. Priorità. È il momento di tirarle fuori.
Sento tante persone tutti i giorni. Persone non candidati, profili, nomi, numeri… persone e per ognuno di loro ho l’obbligo di dare un responso.
Apro i raccoglitori, guardo l’agenda delle chiamate, leggo gli appunti e mi maledico per non essere una persona precisa e pignola. Alla fine riesco a collegare tutti i passaggi e contatto la mia preziosa materia prima. Qualcuno sarà felice di sentirmi, ad altri dovrò spiegare che per questa volta dobbiamo interrompere il percorso e non saranno per niente contenti.

Sono passate da poco le sei e prima che si spengano gli occhi, arresto il computer e rimetto a posto gli strumenti di lavoro. Guardo il telefono e mentre sto per spegnerlo arriva quell’sms che non mi immaginavo.

Mi sono dimenticato di te. Non ti ho richiamato, non ti ho dato un esito, o ti ho lasciato ad attendere informazioni aggiuntive che non ho più avuto la premura di darti. Cerco di rimediare anche se ho già perso la fiducia dopo averla conquistata con difficoltà.

Oggi è andata così, me ne torno a casa con l’amaro in testa. Domani sarà un altro giorno e magari andrà meglio. L’unica certezza che mi rimane, mentre giro le chiavi e mi preparo a trenta minuti di auto, è che la prossima volta che entrerò in ufficio ci sarà un’altra sfida ad attendermi e poi un’altra e ancora e ancora…Non è mica un lavoro facile, ma non saprei fare altro.

Leggi la puntata 2 del Diario di un Recruiter

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