I software sono già da anni alleati fondamentali dei lavoratori dell’ambito risorse umane. Servono per organizzare e gestire meglio le informazioni dei dipendenti e quelli dei candidati, aiutano a ricordare le attività da eseguire, permettono di snellire processi e procedure. I software più sviluppati possono addirittura sostituire un Recruiter in carne ed ossa, altri ancora possono rimpiazzare il responsabile di un gruppo di lavoro.

È quello che succede con le App di alcune società della cosiddetta “gig economy”, termine con cui si intende un modello economico dove non esistono le prestazioni lavorative continuative ma si lavora “on demand”, ovvero quando viene richiesto il servizio. È il caso di Uber, Foodora, Deliveroo e molte altre company specializzate nelle consegne a domicilio o nel trasporto di persone. Una app mette in contatto chi offre il servizio con chi lo richiede.

C’è chi sostiene che questo sistema sia più obiettivo ed efficiente rispetto ad un responsabile in carne ed ossa. Una app infatti non è soggetta a favoritismi nell’assegnazione delle commesse e nemmeno a discriminazioni.

Alcuni dei lavoratori di queste società tuttavia non condividono questa opinione e anzi rimpiangono la possibilità di interfacciarsi con una persona che rappresenti l’azienda, di appellarsi ad un contratto vero e proprio o ad un sindacato. Anche protestare diventa complesso per questi lavoratori occasionali, che spesso non conoscono i colleghi e non hanno punti di ritrovo né reali né virtuali.

Il Management Algoritmico, tra equità e controllo

Per questa tipologia di gestione e coordinamento delle risorse umane la Carnegie Mellon University ha coniato il termine di “management algoritmico”. I suoi sostenitori lo lodano per essere un sistema efficiente, trasparente, equo. Per molti altri invece si tratta di un sistema di controllo per lavoratori che dovrebbero essere autonomi e quindi non esaminati dalla precisione e dalla costanza di un sistema informatico. Alcune di queste app sono in grado di calcolare e comunicare ai corrieri il tempo di risposta nell’accettazione di un ordine e il tempo di consegna; monitorano insomma il livello di efficienza del lavoratore commessa per commessa. In caso di mancata accettazione di tre richieste di seguito l’utente viene “punito” scollegandolo dall’app per alcuni minuti.

Alcuni giornalisti che si stanno interrogando sul fenomeno hanno utilizzato dei parallelismi tra questi algoritmi e l’organizzazione scientifica del lavoro proposta da Taylor ormai cento anni fa.

Come Taylor controllava e vigilava sui risultati degli operai delle grandi fabbriche manifatturiere statunitensi, così nel ventunesimo secolo sono i lavoratori della gig economy ad essere sorvegliati ed incitati a fare meglio. Chi non rispetta gli standard rischia di essere disconnesso dall’app e quindi restare senza incarichi e senza lavoro.

Algoritmi al posto dei Recruiter: un trend in ascesa, ma a quale prezzo?

Altri software sono invece strutturati per sostituirsi ai Recruiter. Macchinosi algoritmi sono in grado di passare in rassegna le candidature selezionando solo i CV “più in linea” rispetto a criteri impostati. Gli aspetti positivi di questo genere di strumenti sono una teorica imparzialità basata sul fatto che una macchina non può avere preferenze o simpatie, la possibilità di passare in rassegna velocemente anche centinaia e centinaia di curricula e di “leggerli” tutti con lo stesso livello di attenzione nonostante il numero o la lunghezza dei cv. Si tratta di strumenti che analizzano le parole chiave contenute nel testo, fanno quindi un’analisi semantica del contenuto. Il risparmio di tempo e l’accuratezza nell’attività sono i due punti principali su cui spingono le software house che propongono questo tipo di strumenti.

Approfondisci questo argomento leggendo “Chi, o cosa, ci selezionerà per il prossimo lavoro?”

Secondo i dati del quotidiano Guardian, negli Stati Uniti il 72% dei curriculum non è esaminato da recruiter in carne ed ossa ma da software. L’intento è nobile, poiché si tratta di sostituire il giudizio oggettivo della macchina a quello soggettivo della persona. Sempre il Guardian si interroga però sulla possibilità che elementi discriminatori possano venire codificati e che quindi vengano trasmessi anche al software.

Uno strumento tecnologico inoltre non è in grado di percepire quelle sfumature che sono il cuore del lavoro con le persone.

La domanda sorge quindi spontanea: il gioco vale la candela? Siamo disposti a guadagnare tempo ma a perdere possibili candidati interessanti?
La risposta è sicuramente negativa per quanto riguarda la posizioni manageriali, ma rischia di essere positiva quando si tratta di screening di profili più semplici da selezionare, come impiegati o venditori. In questo secondo caso dovrebbero intervenire etica e deontologia professionale a indirizzare la risposta.

Se questo tema ti interessa, leggi anche “Automatic Recruitment VS Recruiter Automi”

Ci siamo inoltre chiesti se le società di selezione devono sentirsi minacciate dall’utilizzo massiccio di questo genere di software e se gli strumenti meccanici debbano essere considerati come nuovi competitor. Non ci sono dubbi nel rispondere negativamente a queste domande.

La cura e la qualità con cui quotidianamente svolgiamo la nostra professione ci esime dalla sfida, collocandoci su due piani molto distanti tra loro.

Anche la personalizzazione è un inestimabile valore aggiunto del lavoro delle persone rispetto a quello delle macchine. Saper cogliere le sfumature e le caratteristiche sia del candidato sia del contesto di inserimento sono competenze che difficilmente potranno essere rimpiazzate da un semplice algoritmo.

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2 Commenti

  1. Buongiorno,
    vorrei collegarmi all’articolo “Algoritmi al posto dei Recruiter”, mi sento di dire…, ma dove è andato a finire l’aspetto UMANO.
    In questi giorni se ne andato, penso uno dei più grandi imprenditori, Leonardo Del Vecchio, tra i più ricchi al mondo, ha creato un azienda sulle persone, dove l’aspetto UMANO è stata la base del suo successo.
    Mi sento coinvolto personalmente, in quanto l’Azienda per cui lavoravo è stata venduta e da Dirigente oggi mi devo rimettere in gioco e magari essere selezionato da un ALGORITMO dopo 33 anni di esperienza e 20 anni come dirigente; CHISSA DOVE ANDREMO A FINIRE.
    Vi lascio con questa riflessione: Cosa non dice un CV?

    Non finirò mai di dirlo: dietro un curriculum c’è una persona.
    C’è un mondo da scoprire.
    Se manca una determinata skills, si può sempre imparare.
    Incontrate le persone, per quanto possibile.
    Fatele raccontare, date l’opportunità di avere un confronto.
    Sarà un investimento per voi ed anche per la vostra azienda.

    • Ciao Alberto e grazie per l’interessante spunto di riflessione!
      In SCR siamo pienamente d’accordo con te; sebbene notiamo che ci sia una tendenza a digitalizzare (e disumanizzare) tutto, persino i processi relativi alle risorse UMANE, troviamo fondamentale costruire dei rapporti veri con le persone, che siano candidati o imprenditori, e ci alleniamo a cogliere ogni sfumatura e a conoscere, ancora prima che a selezionare, chi ci troviamo davanti. Le tecnologie sono molto utili, è vero, ma dovrebbero essere un supporto a Recruiter e Head-Hunter e non dei sostituti.

      È chiaro che nella ricerca e selezione, quando si hanno numeri elevati di candidature, il tempo è tiranno e non è possibile incontrare tutti, perciò il CV rimane comunque un biglietto da visita molto importante e che, se letto e interpretato da una persona esperta, può dire già molto su chi ci troveremo di fronte. Superato poi lo step iniziale, occorre lasciare spazio alla persona per raccontarsi, approfondire non solo le competenze ma anche le motivazioni e l’approccio al lavoro, aspetti che nessun algoritmo potrà mai riuscire ad indagare con una sensibilità umana.

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